"Educare i figli è un'impresa creativa, un'arte più che una scienza"
Bettelheim
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23 settembre 2019

ANNO NUOVO SCUOLA NUOVA: BUON CAMBIAMENTO!

Foto di Prawny da Pixabay
Le scuole e i nidi sono iniziati. Per molti bambini e bambine, ragazzi e ragazze è l'inizio di un nuovo viaggio. E, insieme a loro, anche per noi genitori.
Che si tratti dell'inserimento al nido o alla scuola dell'infanzia, che sia l'inizio della scuola primaria o secondaria o anche delle superiori è certamente un periodo importante e faticoso di cambiamento.
Non solo perché nei primi anni i periodi di inserimento o ambientamento sono spesso molto lunghi e mettono a dura prova le risorse organizzative delle famiglie. Ma soprattutto perché, di qualunque inizio si tratti e in qualunque modo sia organizzato, segna un passaggio. Una fase di crescita e di cambiamento del bambino (o del ragazzo), ma anche della relazione con i genitori.

L'inserimento al nido è la prima importante separazione, la prima occasione nella quale affidiamo nostro figlio o nostra figlia ad un contesto estraneo e non più ad una sola persona scelta da noi, ma ad una collettività, di adulti e di bambini (e di genitori anche). E' un passaggio che richiede fiducia nella struttura e nel bambino e che risulta spesso molto faticoso sia per il genitore - in  particolare la mamma - sia per il bambino.

Queste stesse difficoltà si affrontano all'inizio della scuola dell'infanzia se non si è fatta l'esperienza del nido. E in ogni caso questo nuovo ciclo coincide con l'acquisizione di nuove autonomie, un maggiore rapporto bambini-insegnanti, con le quali si instaura anche un rapporto solitamente più distante e dunque meno rassicurante rispetto a quello con le educatrici del nido. Ma soprattutto coincide con l'inizio della socializzazione e tutta la complessità dei rapporti fra pari.

Il passaggio alla scuola primaria segna l'inizio dell'apprendimento, con tutta l'ansia da prestazione che oggi questo comporta in bambini e genitori, la difficoltà delle regole, della concentrazione prolungata e dell'apprendimento frontale e in ambiente chiuso e ristretto, con poche possibilità di movimento. Inizia il problema dei compiti a casa.

Poi la secondaria (la scuola media): l'inizio di una nuova - e spesso troppo improvvisa - autonomia, a volte difficile da gestire, anche in questo caso sia per i figli che per i genitori. Un nuovo modo di apprendere e studiare e di relazionarsi con la scuola e i docenti. Cui si aggiunge il cambiamento profondo nelle relazioni fra coetanei e nel proprio corpo. Una tempesta di cambiamenti da governare per i genitori.

Infine, l'inizio della secondaria superiore: l'inizio della vera e propria adolescenza, il progressivo distacco dal nucleo familiare, i conflitti che ne derivano, le diverse richieste della scuola a seconda dell'istituto scelto.

Solo problemi e preoccupazioni allora? Come sostenere i nostri figli in questi passaggi impegnativi?

Innanzitutto appunto sosteniamoli. Non graviamoli con le nostre ansie e preoccupazioni. Affidiamo queste al nostro compagno o compagna (se c'é), a un amico o amica, a un gruppo, o chiediamo consiglio ad un esperto se siamo molto preoccupati. Ma non a nostro figlio.

Diamogli tempo. Ai bambini e alla scuola. Ogni cambiamento richiede un tempo di adattamento. Variabile in base all'età (l'adattamento al nido per es. richiede alcuni mesi), al bambino, alla struttura che lo accoglie e al contesto generale. Ma in ogni caso richiede tempo. Osserviamo quello che accade senza intervenire immediatamente, lasciamo loro la possibilità di tirare fuori le proprie risorse e trovare il loro modo di adattarsi alla nuova situazione

Diamogli fiducia. I nostri figli sono pieni di risorse. Sono capaci di affrontare il cambiamento. Meglio di noi. Perché sono più giovani e quindi più duttili. Non spaventiamoci se all'inizio sono più irrequieti, o sembrano in difficoltà. Stanno cercando di adattarsi e stanno crescendo.

Diamo fiducia alle strutture. Se abbiamo scelto un nido o una scuola lo abbiamo fatto con delle motivazioni. Per quanti limiti possa avere la scuola italiana è anche piena di persone capaci e con molta esperienza. Stiamo in osservazione, ma aspettiamo a trarre conclusioni. Se abbiamo dei dubbi parliamo con le persone interessate e non coinvolgiamo i bambini.

Ascoltiamoli. I bambini piccoli non raccontano, ma il loro corpo e le loro reazioni ci dicono tante cose. Mano mano che crescono iniziano a raccontare. Non sempre come immaginiamo noi: spesso partono da dettagli per noi insignificanti ma per loro importanti. Dedichiamo loro un ascolto attento, che li aiuti ad esprimere anche gli stati d'animo e non solo i fatti, senza ricoprirli di domande, ma creando nella frenesia quotidiana uno spazio sereno e libero di ascolto (a tavola? prima di dormire?).

Vediamo le cose in prospettiva: per crescere bisogna cambiare. I passaggi sono inevitabili, sono il momento in cui si va avanti. Il ruolo del genitore è quello della guida nel viaggio. Se la guida è incerta e preoccupata, il viaggio è faticoso e malsicuro. Se la guida è salda, è sereno e pieno di cose da scoprire.

2 luglio 2019

I FIGLI NON SONO TUTTI UGUALI

Foto di John Hain da Pixabay
I figli non sono tutti uguali. Anzi sono tutti diversi.
Perché le persone non sono tutte uguali. Anzi sono - siamo - tutti diversi e diverse.
I figli sono uguali nell'amore che proviamo per loro e nel diritto (bisogno) che hanno di esso.
Per tutto il resto sono diversi. Non migliori o peggiori ovviamente, ma diversi.
Hanno età diverse innanzitutto (eccezion fatta per i gemelli evidentemente), temperamenti e personalità diverse.

Può sembrare una banalità. Eppure contrasta con l'idea largamente diffusa che i figli sono uguali appunto e che pertanto vanno trattati nello stesso modo (come afferma l'immagine sotto per esempio).

E' un'idea davvero molto diffusa che porta molti genitori a fare scelte generali valide per tutti i figli. Per esempio la paghetta o la si da a tutti o non la si da a nessuno. In tal modo il figlio più grande non l'avrà perché il fratello più piccolo non può averla, oppure il piccolo si ritrova in mano del denaro senza che sia ancora il tempo giusto. Se è il compleanno di un figlio anche l'altro avrà un regalo "sennò ci resta male". Se compro un paio di scarpe all'uno devo comprarle anche all'altro. E via di questo passo.

Questo crea però un livellamento che non corrisponde alle diverse esigenze e non permette dunque di rispondere ai bisogni individuali di ciascun figlio e figlia.
Un esempio volutamente molto banale: se un figlio ha un disturbo intestinale devono mangiare tutti riso in bianco? Spero vivamente che la risposta sia no.

Io credo che lo stesso principio si applichi alle situazioni più complesse. Per venire agli esempi citati sopra: la paghetta non va bene per tutte le età e allo stesso modo l'importo cresce con l'età. Si può cominciare a darla al più grande o differenziarne l'entità, motivandola esplicitamente con la differenza di età: quando anche il più piccolo raggiungerà l'età adeguata anche lui o lei avrà la sua paghetta. In questo modo si valorizza anche il ruolo del figlio più grande solitamente caricato di doveri e responsabilità ("tu sei il più grande devi fare il bravo"), che però non corrispondono quasi mai a maggiori possibilità.
Continuando: tutti hanno un compleanno all'anno, ciascun figlio ha la possibilità di vivere un momento di gioia e centralità quando riceve i regali per il proprio e dovrà imparare a rimanere in secondo piano quando tocca al fratello o alla sorella.
Le scarpe prima o poi servono a tutti, ma non nello stesso momento. Si comprano quando servono a ciascuno. L'importante è che a ogni figlio vengano riconosciuti i propri bisogni specifici e che vengano soddisfatti.

In questo modo la competizione fra i fratelli e sorelle diminuisce anziché aumentare, perché ciascuno si sente riconosciuto dai genitori per quello che è ed meno portato a innescare una contesa su cose che non lo interessano. Se invece instauriamo il meccanismo del "tutto uguale per tutti" attiviamo noi stessi un meccanismo di confronto continuo che diventa esasperante per tutti.

E se ci chiedono "perché a lui si e a me no"? La verità, come sempre. è la migliore risposta: "perché siete diversi e avete bisogni diversi, quando sarà il tuo momento lo avrai".

19 novembre 2018

LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI


Per i genitori è difficile vedere i figli e le figlie in difficoltà. E' difficile vederli piangere, vederli tristi, spaventati, vederli in difficoltà nelle prime relazioni con gli altri bambini, o alle prese con la frustrazione a scuola, con la paura di non riuscire, è difficile vederli affrontare le prime grandi delusioni in adolescenza.
E' naturale. Ma forse ultimamente ci stiamo spaventando un po' troppo. Abbiamo il mito dell'infanzia felice. Il terrore del trauma. Le trasformazioni culturali degli ultimi decenni hanno costruito in noi genitori l'idea di un bambino che non deve soffrire, perché se soffre significa che non è abbastanza amato. Che è infelice. E la sua infelicità dipende da noi. E allora il compito dei genitori diventa quello di eliminare le difficoltà per il figlio o la figlia. Perché non pianga, non sia triste, non abbia paura, non sia escluso, non sia frustrato, non sia insicuro, non sia mai deluso né solo.
Tutto questo naturalmente non è possibile. Anzi finisce coll'essere dannoso.
Di fatto inevitabilmente nella vita ogni persona incontra tutte queste situazioni: tristezza, paura, dolore, frustrazione, insicurezza, delusione, solitudine, e chi più ne ha più ne metta. Se il genitore semplicemente le rimuove restano emozioni che non si possono affrontare, perché non si impara a farlo.
Se appena si rompe un gioco e il bambino si dispera glielo ricompriamo, non sperimenterà che si può perdere qualcosa, che il dolore può passare e che ci sono dei modi utili per farlo passare.
Se appena un bambino ha paura di una situazione gliela evitiamo, non capirà di avere la forza per superare i propri limiti.
Se appena un bambino non riesce a fare un compito, glielo facilitiamo - facendolo al suo posto o evitandoglielo - non imparerà che si può non riuscire, che non è un dramma e non imparerà che a volte, insistendo, si riesce.
Se appena un bambino ha una difficoltà di relazione con un coetaneo interveniamo per far andare le cose come vogliamo noi, per il suo bene, non imparerà come si possono gestire i rapporti interpersonali.
La vera sfida non è non incontrare situazioni faticose e dolorose - cosa impossibile appunto - ma saperle affrontare e superare. Per poi provare nuovamente - e con più intensità a volte - gioia, appagamento, sicurezza, fiducia in sé e negli altri, senso di appartenenza e riconoscimento. Magari anche felicità. Tutta quella gamma di emozioni e sentimenti positivi che ogni genitore vuole donare al proprio figlio e figlia.
Che fare allora? Come sopportare che nostro figlio o nostra figlia soffra e sia in  difficoltà?
Affiancandolo nel tollerare la difficoltà e nel trovare un modo utile per superarla, scoprendo le risorse interne ed esterne che ha a disposizione e come utilizzarle.
Un gioco rotto può essere salutato, per esempio, e possiamo accettare che pianga per far passare il dolore della perdita.
Possiamo rassicurarlo per superare una paura e se non si rassicura subito stare comunque insieme.
Possiamo spronarlo ad insistere nel fare una cosa non facile, magari suggerendo altri modi per farla. E accettare che si arrabbi se non riesce.
Possiamo ascoltarlo e accoglierlo se ha un problema con un coetaneo e lasciare che sperimenti dei modi per risolvere il suo problema.
In altre parole possiamo riempire un bella cassetta di attrezzi utili a vivere. Ogni difficoltà quotidiana può essere un modo per trovare l'attrezzo giusto per quella situazione, scoprire come si maneggia e riporlo nella preziosa cassettina. Un attrezzo per affrontare il dolore, uno per tollerare la frustrazione, un altro per superare la paura. E via dicendo. Quando sarà grande porterà con sé nella vita questa cassetta degli attrezzi e quando sarà in difficoltà cercherà l'attrezzo giusto e saprà come usarlo. Quale dono più grande?
Il punto però è: noi abbiamo la nostra cassetta degli attrezzi? E in che stato di manutenzione è?


8 ottobre 2018


Mettetevi comodi e godetevi questo cortometraggio magico. Guardatelo anche insieme ai vostri bimbi e bimbe. 




Tre generazioni: un nonno, un papà, un nipotino. Una barca. La luna. Un lavoro da svolgere. Il nonno dice che si fa in un modo. Il papà dice che si fa in un altro. Nonno e papà discutono e ciascuno mostra al bambino che il proprio è il modo migliore. Ma lui non li ascolta. Spinto dalla curiosità affronta le cose a modo suo. Non come dice il padre. Non come dice il nonno. Come dice lui. Ed è meraviglia. 
Lasciamoli provare. Lasciamoli cercare. Lasciamoci soprprendere. Anche loro hanno qualcosa da insegnarci. E non è detto che abbiamo sempre ragione noi.

11 giugno 2018

DELLA DIFFICILE ARTE DI NON INTERVENIRE

Se vi trovate di fronte un bambino piccolo alle prese con un compito per lui impegnativo ma non impossibile - infilare un pantalone, costruire una torre, salire su un rialzo -, se   vedete il bambino in difficoltà ma che comunque pervicacemente insiste, che fate? Intervenite per aiutarlo? Infilandogli il pantalone o mettendo un pezzo della torre o sollevandolo per salire sul rialzo, per esempio?

Se vi trovate con due bambini che litigano, urlano, cominciano ad azzuffarsi, anche se senza farsi male, cosa fate? Intervenite per dividerli, rimproverare chi ha torto, spiegare che non si alzano le mani e dirimere la controversia?

Immagino che la maggioraparte di noi risponda di si.

Perché, mi chiedo? Perché ci viene così spontaneo accorrere in aiuto? 
Forse rischiando di banalizzare, risponderei: perché se no che ci stiamo a fare? Se nostro figlio è in diffcoltà e ce ne accorgiamo, è nostro compito aiutarlo e cavarlo di impaccio. Se diventano aggressivi, è nostro compito impedirlo e insegnare ai nostri figli i valori morali fondamentali: non essere violenti, risolvere i conflitti in base a criteri di equità e giustizia.
Se stessimo lì a guardare in cosa consisterebbe il nostro ruolo di adulti ed educatori?

Ma di cosa ha bisogno un bambino nelle situazioni che ho ipotizzato?
Il primo bambino sta facendo vari esperimenti e sforzi per acquisire una competenza adeguata alla sua età. Ha bisogno di concentrazione, di fare molti tentativi, molti errori, di non riuscire, di arrabbiarsi (forse) e di aver voglia di riprovare. Ha bisogno di essere incoraggiato e di essere consolato e tranquillizzato se si arrabbia. Ha bisogno di essere felice quando ci riesce e di sentirsi importante. Ha bisogno di essere visto quando ci riesce. Ha bisogno di riprovare per capire che davvero lo sa fare. Ha bisogno di perdere interesse per quella cosa che ormai sa fare così bene e trovare una nuova cosa difficile da provare.

I bambini che litigano hanno bisogno di litigare. Hanno bisogno di arrabbiarsi (anche loro), di urlare, di affermarsi, di competere, di sperimentare l’aggressività, di difendersi, di testare la forza, fisica e relazionale, hanno bisogno di dominare e di essere dominati in modo alterno. Hanno bisogno di capire come fare la pace. Hanno bisogno di scoprire che ci si vuole bene anche se si litiga. Anzi che si può litigare proprio perché ci si vuole bene. 

Noi abbiamo bisogno di intervenire, perché abbiamo bisogno di avere un ruolo educativo, perché abbiamo bisogno di vedere nostro figlio che riesce in un compito, perché è molto faticoso gestire la sua eventuale rabbia e frustrazione. Perché dobbiamo essere sicuri che non si facciano male litigando,  perché vogliamo trasmettere loro i nostri valori.

Ma questi sono i nostri bisogni non i loro.

Dovremmo ignorarli dunque? Lasciarli a sé stessi, ai loro tentativi più o meno frustranti, alle loro liti più o meno aspre? 

Io credo che il nostro ruolo - fondamentale, difficilissimo e ineludibile - sia esserci. E che nostro figlio sappia che ci siamo. Essere lì, attenti e osservatori. Per incoraggiare, per assistere alla riuscita o per consolare del fallimento, per gioire dei successi.
Per scoprire che i bambini sanno fare pace e trovare soluzioni migliori e più durature di quelle che proponiamo noi, per evitare che la situazione degeneri, per consolare lo sconfitto, per rassicurare il perdente, per sdrammatizzare il dramma.

Ovviamente ciò può verificarsi solo se lo sforzo non è impossibile, se non ci sono rischi oggettivi per l’incolumità, se la lite non degenera in violenza, ossia solo quando non vi sia un pericolo.

Quindi ci troviamo di fronte ad un compito molto difficile: valutare di volta in volta se il nostro intervento è necessario o superfluo, o addirittura dannoso, ossia se risponde al bisogno del bambino.

Per fare questo dobbiamo essere presenti, attenti, lucidi, in sintonia col bambino. Pur occupandoci delle nostre cose, possiamo valutare cosa è più utile in quel momento. Scopriremo che spesso la cosa più utile è proprio continuare ad occuparci delle nostre cose.

16 aprile 2018

CUORI PURI

Cuori Puri, di Roberto De Paolis, Italia, 2016
E' il titolo di un film davvero notevole. Bello e complesso, intenso e delicato. Puro, a suo modo.
Può e deve essere letto a moltissimi livelli. Uno di questi è il rapporto fra la protagonista - diciottenne - e sua madre.
Il film - per essere molto sintetica e non svelare nulla - narra l'incontro di due giovani che pur abitando lo stesso quartiere - Tor Sapienza con tutte le sue difficoltà e contraddizioni - appartengono a due mondi lontanissimi. Eppure, o proprio per questo, si attraggono, si cercano, forse si trovano.
Agnese, in particolare, vive solo con la madre che ha scelto per sé e per lei un'appartenenza religiosa al cattolicesimo osservante fatta di misticismo, socialità, ma anche repressione della sessualità, forte colpevolizzazione rispetto al desiderio e al piacere. In nome di un amore concepito come sacrificio e come dono di sé completo all'altro, ogni altra esperienza è mortificata e censurata. La madre esercita un controllo ferreo sulla figlia in nome del suo amore di madre: in tutto il film le si rivolge sempre chiamandola "amore" - parola che finisce per suonare soffocante e quasi violenta - ma al contempo ne controlla pervasivamente la vita e l'intimità anche fisica. In nome del principio - confermato dal parroco- che i genitori,  e solo loro, sanno ciò è che giusto e sbagliato e scelgono sempre per il bene dei figli.
Ma Agnese ha un bisogno istintivo di crescere e vivere e cercare sé stessa che la porta a non fermarsi, a non accettare passivamente. Il conflitto interno che ne nasce porterà Agnese a scelte molto faticose, che non rivelo.

Attraverso questa narrazione, per certi versi un po' estrema, il film pone questioni complesse -come dicevo- ma questa è particolarmente importante per i genitori: più vogliamo controllare i nostri figli adolescenti, più ci sfuggiranno di mano. Più vogliamo imporre le nostre scelte e i nostri valori, più se ne allontaneranno. Più vogliamo proteggerli, più li mettiamo in pericolo. Più vogliamo tenerli con noi, più se ne andranno.
E allora che fare? Lasciarli liberi e basta? Che facciano quello che vogliono quando lo vogliono come lo vogliono? No, neanche questo. Come pure lascia intravedere il personaggio di Stefano, anche se non è questo l'aspetto centrale.
Io continuo a credere che il punto sia sempre e solo ascoltare. Faticosamente ascoltare. Non solo con le orecchie ma soprattutto col cuore e la mente- mi si perdoni la retorica. Non fare solo domande per sapere. Che hai fatto? Tutto bene oggi? Con chi sei uscito? Quanto sei stata al telefono?
Ma soprattutto domande per conoscere: come stai? cosa ti piace? cosa non ti piace? cosa desideri? che ne pensi? come puoi risolvere il problema?
Le risposte a queste domande ci diranno anche che ha fatto oggi e con chi è uscita. Ma anche molto di più. E non avendo bisogno di proteggersi dalla nostra invadenza, potranno coinvolgerci nella loro vita, quando ne avranno bisogno. Perché non saremo una minaccia alla loro integrità, ma una risorsa per la loro vita.

Il blog avrà ora una cadenza quindicinale. Il prossimo post sarà pubblicato il 30 aprile. Stay tuned!

9 aprile 2018

ABBIAMO PERDUTO L'INFANZIA?


Ultimamente mi è capitato di leggere alcuni libri o racconti in cui si narra un'infanzia felice, libera, a contatto con la natura, in cui il bambino esplora da solo il mondo, stupito ed estasiato nella scoperta e nell'incontro con gli oggetti semplici del mondo naturale e quotidiano.
Nel leggerli ho provato tristezza. Tristezza perché quest'infanzia io non l'ho mai vista. Almeno qui in città.
Non ho conosciuto nessun bambino o bambina che sia lasciato libero di allontanarsi da solo per scoprire il mondo intorno. Ovviamente non per strada. Ma neanche al parco, al mare o in campagna. Non ho conosciuto nessun bambino che chieda di farlo. Non ho conosciuto nessun bambino o bambina che passi il tempo osservando a lungo la vita degli insetti. O che conservi come tesori preziosi sassi, conchiglie, pezzi di legno. Questo in realtà si, ma spesso noi genitori glieli facciamo buttare (sporcano, ingombrante, che ci fai?), e in ogni caso vengono ben presto accantonati. Non ho conosciuto nessun bambino che passi il tempo osservando l'attività di un adulto e facendo domande.

Conosco molti bambini e bambine che giocano sempre alla presenza di adulti che li controllano, senza potersi né volersi allontanare. Conosco molti bambini e bambine che hanno la stanza piena di oggetti cui non danno molto valore. Conosco molti bambini e bambine che per scoprire il mondo partecipano ai laboratori didattici e fanno "giochi educativi". Conosco molti bambini e bambine cha provano mille attività e non si appassionano a nessuna. Conosco molti bambini e bambine con problemi di concentrazione.

I bambini e le bambine  che conosco io sono gli stessi e le stesse che conoscete anche voi?
Abbiamo perduto per sempre la possibilità di un'infanzia felice e appagata? O forse non è mai esistita e è solo un immagine letteraria?

Mi rassicuro un po' ricordando che mio figlio giorni fa, guardando un video di un bambino che correva felice, ha detto "com'era bello essere bambini!".

E mi illudo leggendo romanzi.

A chi vuole illudersi insieme a me suggerisco:

E. Morante, L'isola di Arturo
G. Durrel, La mia famiglia e altri animali
A. Mutis, Trittico di mare e di terra

Buona lettura

30 ottobre 2017

A SCUOLA DA SOLI

I minori di 14 anni non possono tornare a casa da soli. Lo dice la ministra Fedeli sulla base della legge, in seguito ad una recente sentenza della Corte Costituzionale. 

Poco importa che questo sia contrario ai bisogni evolutivi dei ragazzi (vedi l'articolo del pedagogista D. Novara http://www.vita.it/it/article/2017/10/27/daniele-novara-ma-i-ragazzi-dalle-medie-devono-tornare-da-soli/144929/, per citare solo un esempio). 
Meno ancora che sia inconciliabile con gli orari di lavoro dei genitori. Tanto ci sono i nonni. E' noto d'altronde che il welfare italiano ritiene i nonni i principali responsabili della cura dei bambini. Con buona pace di chi non può servirsene.

Comunque, superando l'iniziale  sconcerto, scopro che tutta la questione nasce dall'art. 591 del codice penale che sancisce le pene per chi "abbandona una persona minore degli anni quattordici". Lo stesso articolo in nota precisa che "per i minori di quattordici anni è prevista una presunzione assoluta di incapacità". Io non mi intendo affatto di legge, ma immagino che la questione riguardi anche il fatto di lasciare un ragazzo o una ragazza soli a casa. 

Ciò che mi interessa non è la questione giuridica - sulla quale non ho competenza come dicevo - ma educativa. Come scrivevo tempo fa l'educazione è un processo (http://lartedieducare.blogspot.it/2017/05/leducazione-e-un-processo.html) e questo vale anche per l'acquisizione dell'autonomia
Come è possibile diventare autonomi e responsabili di sé stessi se fino a 14 anni (!) si è considerati e trattati come assolutamente incapaci? Come e quando posso far fare a mio figlio quei passi necessari per imparare a gestirsi in modo autonomo? Passi che devono cominciare ben prima dei 14 anni: con esperienze graduali, inizialmente sotto la guida e la supervisione di un adulto e poi via via in modo sempre più autonomo. Andare a comprare il famoso latte sotto casa, restare da solo o da sola in casa un tempo via via crescente, aprire la porta di casa e gestire le chiavi. E altre piccole grandi esperienze che se non vengono fatte poco alla volta diventano - allora sì - rischiose. 
Se comincio a tornare a casa da solo a 14 anni e un giorno perché per la legge sono improvvisamente diventato capace allora certo che sono in pericolo! Perché non so neanche attraversare la strada. Non so che fare se ho un imprevisto (e non mi si risponda che c'è lo smartphone perché è un'altra forma di dipendenza, non autonomia), magari non ho mai fatto il tragitto casa scuola a piedi perché mi hanno sempre accompagnato in macchina. O entro in ansia se mi trovo da solo a casa. 

Dunque qualche giurista può spiegarmi come educare i figli all'autonomia nel rispetto della legge? E perché il problema si pone ora? Io alle scuole medie tornavo  a casa da sola, come la maggior parte  dei miei coetanei, ma immagino che l'articolo 591 già esistesse. 

In attesa di risposte giuridiche o legislative più adeguate continuiamo ad avviare i nostri figli, con gradualità, all'autonomia. E' questa la nostra vera responsabilità educativa

2 ottobre 2017

GENITORI (E) ALLENATORI


Oltre alla scuola sono ricominciate le varie attività sportive. I genitori nel pomeriggio si trasformano in accompagnatori da una parte all'altra del quartiere o della città. Non solo.
Spesso si trasformano anche in allenatori. Non volendo rinunciare al proprio ruolo solo perché si è in palestra, in un campo sportivo o in piscina. Restano a bordo campo o bordo vasca e si sbracciano facendo gesti inequivocabili ai bambini di fare silenzio, di stare fermi, di stare in fila o altre varie istruzioni. 

Il tutto è molto faticoso.

Per il genitore, che sta in tensione e, spesso, si arrabbia per gli atteggiamenti del figlio o resta deluso dai risultati. 
Per l'istruttore, che si trova a dover condividere il proprio ruolo educativo con molti altri adulti osservatori che spesso e volentieri intervengono limitandone l'operato.
Per il bambino, che non può affidarsi a una sola figura di riferimento e resta confuso o in tensione non sapendo bene a chi dare retta rispetto a cosa e non capendo se può semplicemente divertirsi o soddisfare precisi standard di comportamento o performance. Molto spesso infatti in questi casi il bambino, specie se alle prime esperienze extra scolastiche, fa resistenza e piange  in presenza del genitore, che si trova dunque ad affrontare anche la fatica di motivarlo e il senso di colpa di costringerlo (quante volte accade in piscina?).

Per questo in alcune strutture sportive i genitori sono invitati a restare fuori. Ma non sempre questa  scelta è gradita ai genitori.

Io credo che i ruoli siano importanti. Come ho già scritto, a ciascuno il suo. (http://lartedieducare.blogspot.it/2017/04/a-ciascuno-il-suo.html). Anche in questo caso. E' importante che ognuno faccia la propria parte. Niente di più e niente di meno. Così i bambini e le bambine potranno crescere con maggiore  chiarezza e armonia.

Il ruolo del genitore non è quello di un allenatore sportivo, né è suo compito stabilire regole di comportamento, metodi educativi in contesto sportivo, adeguatezza delle prestazioni. Il suo ruolo è, ancora una volta e sempre, quello di ascoltare i propri figli. Facendosi raccontare, se lo fanno, o comunque entrando in sintonia con lui o lei per capire se si è divertito, se è stato bene, se è teso ecc. Di apprezzare e valorizzare i successi e di sostenerlo e incoraggiarlo di fronte alle difficoltà o agli insuccessi. Di parlare con l'istruttore per condividere la conoscenza del bambino e collaborare alla sua crescita.

Il ruolo dell'istruttore è quello di gestire il gruppo, dare regole e farle rispettare, insegnare la disciplina sportiva specifica nel rispetto delle potenzialità di ciascuno, trasmettere i valori sportivi, confrontarsi sempre con il genitore.

Così nella complementarietà dei ruoli i bambini avranno differenti adulti di riferimento e da ciascuno potranno trarre stimoli adeguati e differenziati, ma coerenti. E se non è possibile, beh direi che è un'ottima ragione per cambiare struttura.

Dunque dopo aver accompagnato i bambini, lasciamoli all'istruttore a prendiamoci un'ora di relax. Farà bene a tutti.

Ah! Dimenticavo! Il ruolo dei bambini? Divertirsi!



18 settembre 2017

A SCUOLA A PIEDI. DA SOLI

Fu quando mio figlio aveva 8 anni che con un gruppo di amici genitori decidemmo che potevano andare scuola a piedi e da soli. O meglio in gruppo. Ma senza adulti. O quasi.

Ci organizzammo così: appuntamento sotto la casa di uno di noi, quella più centrale per il gruppo. Uno di noi a turno era con loro. Non li accompagnavamo però. Erano i bambini ad attraversare, a decidere la strada, a regolarsi col tempo. Il ruolo dell'adulto era quello di intervenire in caso di pericolo, di dare indicazioni solo se necessarie, di sostenerli nel gestire un conflitto se non riuscivano da soli. C'era una sola regola: nessun ritardo all'appuntamento altrimenti ci rimettono tutti. Chi ritarda va da solo.

I vantaggi furono tanti: i bambini erano contenti, si alzavano sorridenti e si preparavano di buona lena e con entusiasmo, erano puntuali ed efficienti - altrimenti il gruppo non li aspettava. Anche lungo il tragitto erano di buon umore, se qualcuno però aveva la luna storta o qualche problema si consolavano e incoraggiavano a vicenda. Camminavano. Chiacchieravano. Arrivavano a scuola puntuali.

Anche per noi genitori era comodo: ciascuno di noi accompagnava i figli solo una - massimo due - volte a settimana, gli altri potevano andare al lavoro prima o con meno corse. Non prendevamo la macchina e non cercavamo parcheggio. Non dovevamo urlare per farli uscire di casa. Eravamo tranquilli perché i nostri figli erano seguiti da adulti di cui ci fidavamo e sapevamo che stavano imparando qualcosa.

Progressivamente il ruolo dell'adulto è diventato sempre più marginale: con molta gradualità abbiamo cominciato a lasciare il gruppo prima dell'ultimo attraversamento, poi a lasciarli fare pezzi del tragitto sempre più lunghi da soli. Fino a lasciarli del tutto. All'inizio uno di noi che aveva un figlio più piccolo da accompagnare alla materna verificava che fosse tutto a posto all'arrivo.

In quinta elementare andavano del tutto da soli. Non ci si sono mai stati incidenti né problemi. Una sola volta c'è stato un brutto litigio durante il cammino. Prima ancora dei bambini, ce l'hanno raccontato delle mamme che li avevano visti litigare lungo la strada. C'era una punta di soddisfazione nel loro racconto. Già perché ci guardavano in modo strano, noi così avventati da lasciare soli i nostri figli. Doveva pur succedere qualcosa! In quell'occasione abbiamo parlato con tutto il gruppo. Abbiamo cercato di aiutarli a capire cosa fosse successo e perché e - soprattutto - come gestire meglio la cosa se si fosse creata nuova tensione. Abbiamo sospeso il gruppo per una settimana. Quando ci hanno detto che erano pronti a riprendere abbiamo ricominciato. Non è più accaduto nulla.
Nel corso degli anni (tre in tutto) alcuni bambini hanno sempre fatto parte del gruppo, altri hanno lasciato per varie ragioni. Altri si sono aggiunti. Insomma è stato un gruppo variabile. Ma ha sempre funzionato.

A distanza di tempo credo che due cose siano state fondamentali per la buona riuscita dell'esperienza. Ciascuno di noi a casa parlava con i propri figli di come era andato il percorso, analizzavamo insieme le difficoltà e come affrontarle le volte successive. E condividevamo ogni cosa fra noi genitori. Rispetto a qualunque problema, qualunque novità parlavamo e trovavamo una linea comune. Nessun passo avanti è mai stato fatto se non eravamo tutti pronti. Anche noi genitori eravamo un gruppo. E facevamo con i nostri figli un percorso di autonomia.

Quando all'inizio delle scuole medie sono andati a scuola da soli, ciascuno per proprio conto, eravamo tranquilli. Non è stato un salto nel buio. Noi avevamo imparato a fidarci di loro e loro di sé stessi.

Dimenticavo: tutto questo non è accaduto in paese, ma nella periferia romana. E i bambini non hanno mai avuto un cellulare.

Perché non provare?

10 luglio 2017

CI STATE BENE D'ESTATE?




Ormai è proprio estate. Le scuole sono finite da un mese, le città sono infuocate. Chi può comincia a partire. Chi non può cerca di conciliare faticosamente il lavoro, le giornate senza scuola, la scarsità di energie dovuta al caldo e alla stanchezza accumulata in un anno.

E' già tutto così faticoso per chi resta e così lontano per chi parte che ho deciso che ci rivedremo a settembre. Con energie fresche - in tutti i sensi spero - e la curiosità rinnovata di porci domande e cercare risposte insieme.

Per questa estate vi auguro di passare dei bei momenti. Come dicevo in un post di alcuni mesi fa, è importante creare momenti di piacere con i nostri figli. Momenti di divertimento, complicità, allegria. Situazioni in cui si possa creare e rafforzare una sintonia che potrà poi esserci utile nei momenti difficili, quando saremo stanchi e il nervosismo e la tensione prenderanno il sopravvento. Se abbiamo costruito un legame fatto anche di complicità e sintonia sarà più facile capirsi, perdonarsi le parole grosse e le voci alzate.

Allora non ha importanza il mare, la montagna, il lago. O anche la città. L'importante è scegliere un luogo e un'organizzazione che ci consenta di essere sereni, di rilassarci e assecondare, almeno in estate, i ritmi più lenti. Prenderci il tempo per fare le cose con calma, e regalarlo ai bambini di infilarsi il costume da soli e imparare a farsi la doccia. Per farsi le coccole nel letto la mattina e fare colazione insieme. Per fare qualche gioco con loro e anche per lasciarli esplorare in autonomia e noi goderci qualche istante di meritato riposo.

Per le domande, i dubbi, la fatica ci rivediamo a settembre.

Buona estate a tutti e tutte!

26 giugno 2017

PROBLEMI DA RISOLVERE

Nel post precedente ho accennato alla capacità di problem solving. Ma di cosa si tratta più esattamente?

Letteralmente è la capacità di "risolvere problemi". Pertanto tendiamo a pensare che riguardi gli adulti o, al massimo, i ragazzi e che non abbia nulla a che fare con l'infanzia. Andando a scuola, crescendo, sviluppando il pensiero logico si svilupperà piano piano anche la capacità di risolvere i problemi.

Non è così. In realtà è un'abilità molto importante che si apprende sin da piccoli, già nel primo anno di vita, quando per esempio un bambino vuole raggiungere un oggetto desiderato e non sa come fare. E poi via via giorno dopo  giorno ovviamente.

Anche perché non dobbiamo pensare che riguardi solo problemi complessi o astratti. Si tratta invece della capacità di trovare soluzioni per i problemi quotidiani, le piccole sfide di ogni giorno, la cui complessità aumenta con l'età ovviamente.

E di farlo in modo autonomo, senza ricorrere all'aiuto di un adulto.
Ha dunque a che fare con la creatività e con la capacità di guardare in modo diverso ad uno stesso fatto. Rende autonomi, perché permette di affrontare le difficoltà con risorse proprie, rende sicuri perché permette di sperimentare che se incontriamo una difficoltà sappiamo superarla, rende tenaci perché se abbiamo già superato delle sfide sappiamo che possiamo affrontarne di nuove.

Per tutte queste implicazioni è importante "allenarla" sin da piccoli. Come fare dunque?
Innanzitutto lasciando che i bambini provino e riprovino e cerchino la loro soluzione, spesso diversa dalla nostra.

Questo sin da quando, piccolissimi - come dicevamo - per esempio cercano di raggiungere un oggetto con difficoltà. Possiamo evitare di avvicinarlo o di rimuovere gli ostacoli. Possiamo invece incoraggiarlI a fare tentativi e cercare soluzioni.

E questo stesso atteggiamento di spettatori incoraggianti possiamo tenerlo anche negli anni a venire, trattenendoci dal fornire soluzioni, le nostre soluzioni, ma sollecitandoli a trovarne una, eventualmente dando dei suggerimenti, ma non l'intera soluzione. Certamente non proponendo la nostra come l'unica corretta e indiscutibile.

E' possibile che un bambino non riesca a infilare un vestito. Possiamo lasciare che faccia vari tentativi (specie di domenica!) e poi, se non riesce, dare un'idea: "hai provato a infilare una gamba alla volta?"

Questo anche rispetto alle difficoltà di relazione. Se nostro figlio o nostra figlia ci raccontano di un problema con un amico o un'amica possiamo evitare di dirgli cosa fare ("e tu allora gioca con un altro bambino!") ma chiedergli: "certo c'è un problema... che cosa potresti fare?". Eventualmente suggerire un ventaglio di possibilità da esaminare insieme.

E lo stesso per i problemi di rapporto con noi. Per esempio quando non vogliono svegliarsi la mattina: "capisco che fai fatica ad alzarti,  ma bisogna arrivare a scuola puntuali. Come possiamo fare?"

O ancora nei litigi fra fratelli e sorelle: "volete guardare tutti e due la televisione ma non vi mettete d'accordo sul programma. Che soluzione potete trovare, anziché litigare?"

Se ci prestiamo attenzione sono moltissime le occasioni quotidiane in cui possiamo rimandare loro la possibilità di affrontare e risolvere i problemi senza farlo noi per primi. A volte non sarà sufficiente, e servirà comunque il nostro contributo o persino il nostro intervento risolutore. Ma il fatto  di non proporci immediatamente e di rimandare loro la questione è, di per sé, stimolante. E giorno dopo giorno dà i suoi frutti.

Così favoriamo la loro autonomia, la sicurezza in sé stessi, la loro capacità di avere buone relazioni con i pari.

Direi che vale la pena provare.

19 giugno 2017

PIENI E VUOTI 2




Un lettore del post precedente mi ha chiesto:

quando mio figlio fa i capricci e dice che si annoia (la camera piena di giochi, ecc ecc), io cosa faccio? Cerco di fargli trovare modi per farlo giocare, da solo o con me o con la sorella. Ma poi spesso dopo poco torna con la stessa domanda. E allora, mi chiedo, come far capire a un bimbo di 6-7 anni che la noia è utile?

La domanda in effetti è necessaria. Si fa presto a dire che la noia è utile. Ma in concreto?

Mi viene a mente una scena di "Coraline e la porta magica": Coraline è sola in una grande casa semivuota e piuttosto triste in cui si è appena trasferita con i genitori. Intorno un vasto giardino incolto e anch'esso piuttosto triste. Nessuna persona nei paraggi a parte i suoi genitori completamente assorbiti dal loro lavoro e per nulla disposti a darle retta. Quando chiede al padre cosa può fare perché si annoia lui le risponde: "conta le finestre della casa"! La cosa sorprendente è che Coraline comincia a contare le finestre, anche se senza entusiasmo. E contando le finestre scopre la porta magica!

Io credo che sia così che possiamo sostenere i nostri figli e le nostre figlie nell'esplorazione della noia: dando suggerimenti. Anche assurdi, arzigogolati, insoliti. Mostrando che possono esserci anche altre possibilità oltre la tv, i videogiochi, giocare con altri.

Ma molto spesso questi suggerimenti, diversamente da quanto accade a Coraline, non saranno raccolti. Non ha importanza. Abbiamo comunque indicato una possibilità. Possiamo chiedere a loro di pensare delle soluzioni al problema. Si stimola l'inventiva, la creatività, un'abilità molto importante che gli esperti chiamano "problem solving" e che va allenata. A volte esce fuori qualcosa di sorprendente. Dirò di più. Possiamo tentare questa strada prima di dare il nostro suggerimento e lasciare questo come strategia di riserva.

E se poi proprio nulla viene fuori possiamo semplicemente lasciare che si annoino, brontolando, lamentandosi anche. Ma tollerando noi per primi il bisogno di riempire e di non sentire lagne. Se noi tolleriamo il vuoto e l'attesa, possiamo insegnare loro a tollerarlo a loro volta. E' la parte più difficile e frustrante, sfibrante a volte. E quella che ci sembra più inutile. Invece è la più importante.

Come sempre possiamo insegnare solo ciò che noi per primi sappiamo fare.




12 giugno 2017

PIENI E VUOTI



Riempire gli spazi. Tutti. Occupare il tempo e colmare ogni vuoto. Questo è ciò che facciamo per noi stessi e - ahimè - anche per i nostri figli.

Durante l'anno affianchiamo alla scuola molte attività pomeridiane. Tutte molto interessanti e utili alla crescita. Stimolanti, arricchenti, indispensabili. Lo sport (se no non si muovono in città), la musica, il teatro, l'inglese (oggi non se ne può fare a meno). Nel fine-settimana oltre alle immancabili feste di compleanno ci sono i laboratori. Di qualunque cosa. Giardinaggio. Arte (non si può vedere una mostra senza partecipare a un laboratorio). Cucina. Riciclo. Entomologia. Ecc.

E' tutto molto bello e importante. Imparano tantissime cose, ricevono tantissimi stimoli, vanno veloci, esplorano il mondo e sé stessi in molti modi.

Noi ci sentiamo a posto. Nulla manca ai nostri figli. Nessuna sollecitazione. Nessuna opportunità. Ci hanno spiegato che il cervello di un bambino è plastico e più stimoli arrivano più si sviluppa. E noi lo nutriamo il più possibile.

Una cosa però manca. Il vuoto. La noia.

Il vuoto è importante. Il vuoto è quell'esperienza che ci consente di fermarci e ritrovarci. Anche per un bambino. Quell'esperienza nella quale puoi scoprire cosa ti piace e cosa no. Cosa desideri. Quel momento in cui puoi fantasticare, inventare. Semplicemente non fare nulla e respirare. O annoiarsi terribilmente e poi godere davvero di ciò che verrà dopo. Il vuoto che rende bello - e pieno - il pieno.
E' il momento in cui mettere a frutto in modo personale tutti gli stimoli ricevuti. In cui imparare a tollerare la frustrazione (della noia) e maturare il desiderio (di qualcosa o qualcuno).

Se proviamo a lasciare dei vuoti la reazione immediata è "che faccio? Mi annoio!". Ma se ci sforziamo di non riempire subito e a lasciare che nostro figlio o nostra figlia si attivino in modo personale e li sosteniamo nel tollerare la frustrazione, allora scopriremo insieme a loro tante possibilità creative.

Questo sarà un laboratorio preziosissimo. Di inventiva, creatività, autoregolazione, tolleranza, pazienza, ricerca, esplorazione, autonomia.

Approfittiamo almeno ora che la scuola è finita. Fra un centro estivo e una gita al mare, lasciamo qualche pomeriggio vuoto.