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Non ho mai potuto veder picchiare un bambino senza incollerirmi, sono stato sul punto di alzar le mani su mio padre in una occasione simile. Mi lasciai trascinare e preso da una rabbia che non nascondevo, intervenni:
-Permetta- dissi -crede che un bambino pianga senza motivo?
-Fa la cattiva-
-Vuol dire che ci sono delle ragioni. Forse ha sonno e la nostra presenza o la luce della lampada la disturbano-
Vergognosa e forse cosciente del suo atteggiamento ingrato di megera, mi diede ragione."
E' August Strindberg che scrive, in un romanzo del 1888 (J. A. Strindberg, Memoriale di un folle, A. Curcio Ed., 1978, p. 95).
Ben più di un secolo fa dunque. Ancora oggi invece si sente dire fa la cattiva o non fare la cattiva, e ancora oggi molti genitori affrontano i problemi con le percosse. Non con le verghe, in genere. Ma uno sculaccione in situazioni critiche sono in pochi a rifiutarlo. "Quanno ce vo', ce vo!" si dice a Roma.
Per questo quando ho letto queste righe mi sono stupita. Già allora c'era chi - scrittore, non pedagogista - rifiutava di risolvere i problemi con la violenza (perché di questo si tratta).
Non solo. Oltre al rifiuto delle "botte", il brano contiene un'altra affermazione fondamentale: un bambino non piange senza motivo. Se lo fa ci sono delle ragioni. Dunque non è cattivo e non serve punirlo.
E questo rimanda il problema a noi adulti: perché piange? Cosa posso fare di diverso dal tirare il famoso sculaccione per far smettere il pianto? Etichettarlo come cattivo è solo il modo più sbrigativo per risolvere il problema e non farci domande.
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