I cartoni animati con cui siamo cresciuti raccontavano spesso storie molto tristi - a volte addirittura tragiche. In alcuni casi affrontavano temi delicati. Pensiamo a Remi: anche solo la prima puntata è angosciante. O Lady Oscar che affronta - fra l'altro - il tema dell'identità di genere. Se fosse trasmesso oggi per la prima volta si griderebbe allo scandalo della cosiddetta teoria gender. Solo per fare due esempi. I primi che mi vengono in mente.
Oggi invece facciamo molta attenzione ai contenuti dei cartoni animati. O almeno ci proviamo. Soprattutto rispetto a contenuti di violenza o sofferenza. Meno - mi pare - rispetto a messaggi massificanti. Comunque, cerchiamo di fare più attenzione. Opportunamente credo.
Questa attenzione rischia però di far perdere ai bambini e alle bambine un pezzo di vita. Rischiamo di tramandare l'immagine di un mondo fatto solo di famiglie unite, con una mamma e un papà gentili e ben educati, in cui tutto finisce sempre bene. Un mondo che come ben sappiamo non esiste. Allo stesso tempo facciamo fatica a nominare col loro nome eventi dolorosi e situazioni imbarazzanti. Come se dare un nome diverso alle cose potesse alterarne la sostanza e sollevarci dalla fatica di parlare con i figli della sofferenza.
Insomma facciamo un filtro continuo. Solo che poi arriva un'età in cui col mondo e i suoi dolori si dovranno pur confrontare. E il rischio è che non abbiano gli strumenti per farlo. O che apprendano le informazioni al di fuori della famiglia. Allora si, senza filtri.
Dare alle cose il loro nome e parlare di situazioni dolorose che riguardano i bambini e le bambine senza edulcorarle. Questo è il grande pregio del film francese di animazione La mia vita da zucchina.
Un lungometraggio in stop-motion - pluripremiato - che racconta il doloroso inserimento di un bambino figlio di un'alcolista in una casa famiglia. Lì - dopo un inizio molto difficile all'insegna dell'esclusione e del bullismo - troverà amici importanti cui rimarrà legato per sempre: gli altri bambini che hanno anch'essi alle spalle - o meglio sulle spalle - situazioni drammatiche (tossicodipendenza, abusi sessuali, rimpatri forzati, disagi psichiatrici). E adulti che finalmente sapranno prendersi cura di lui e della sua cara amica. Tutto questo è raccontato attraverso gli occhi di Zucchina - Icar all'anagrafe. E come sappiamo i bambini parlano spontaneamente delle loro cose, quindi non ci sono giri di parole. Tutto viene nominato per quello che è. Anche la sessualità. I bambini della casa famiglia si scambiano informazioni sul sesso, senza pudori. Proprio come accade fra coetanei.
E' un film difficile da vedere coi propri figli, perché non ci consente di usare giri di parole o di continuare a fingere che il mondo sia fatto di famiglie felici, che i bambini non conoscano la sofferenza e non abbiano curiosità sul sesso. Ma proprio per questo è un film importante. Perché ci aiuta a parlare con loro della vita vera. Quella che è intorno a noi e che cerchiamo di non vedere e di occultare.
Sta a noi sostenere i nostri figli rispetto alle emozioni forti, ma non distruttive, che il film suscita e rispondere alle loro molte domande. Ma questo è il nostro ruolo. Quello di parlare, non quello di tacere.
Oggi invece facciamo molta attenzione ai contenuti dei cartoni animati. O almeno ci proviamo. Soprattutto rispetto a contenuti di violenza o sofferenza. Meno - mi pare - rispetto a messaggi massificanti. Comunque, cerchiamo di fare più attenzione. Opportunamente credo.
Questa attenzione rischia però di far perdere ai bambini e alle bambine un pezzo di vita. Rischiamo di tramandare l'immagine di un mondo fatto solo di famiglie unite, con una mamma e un papà gentili e ben educati, in cui tutto finisce sempre bene. Un mondo che come ben sappiamo non esiste. Allo stesso tempo facciamo fatica a nominare col loro nome eventi dolorosi e situazioni imbarazzanti. Come se dare un nome diverso alle cose potesse alterarne la sostanza e sollevarci dalla fatica di parlare con i figli della sofferenza.
Insomma facciamo un filtro continuo. Solo che poi arriva un'età in cui col mondo e i suoi dolori si dovranno pur confrontare. E il rischio è che non abbiano gli strumenti per farlo. O che apprendano le informazioni al di fuori della famiglia. Allora si, senza filtri.
Dare alle cose il loro nome e parlare di situazioni dolorose che riguardano i bambini e le bambine senza edulcorarle. Questo è il grande pregio del film francese di animazione La mia vita da zucchina.
Un lungometraggio in stop-motion - pluripremiato - che racconta il doloroso inserimento di un bambino figlio di un'alcolista in una casa famiglia. Lì - dopo un inizio molto difficile all'insegna dell'esclusione e del bullismo - troverà amici importanti cui rimarrà legato per sempre: gli altri bambini che hanno anch'essi alle spalle - o meglio sulle spalle - situazioni drammatiche (tossicodipendenza, abusi sessuali, rimpatri forzati, disagi psichiatrici). E adulti che finalmente sapranno prendersi cura di lui e della sua cara amica. Tutto questo è raccontato attraverso gli occhi di Zucchina - Icar all'anagrafe. E come sappiamo i bambini parlano spontaneamente delle loro cose, quindi non ci sono giri di parole. Tutto viene nominato per quello che è. Anche la sessualità. I bambini della casa famiglia si scambiano informazioni sul sesso, senza pudori. Proprio come accade fra coetanei.
E' un film difficile da vedere coi propri figli, perché non ci consente di usare giri di parole o di continuare a fingere che il mondo sia fatto di famiglie felici, che i bambini non conoscano la sofferenza e non abbiano curiosità sul sesso. Ma proprio per questo è un film importante. Perché ci aiuta a parlare con loro della vita vera. Quella che è intorno a noi e che cerchiamo di non vedere e di occultare.
Sta a noi sostenere i nostri figli rispetto alle emozioni forti, ma non distruttive, che il film suscita e rispondere alle loro molte domande. Ma questo è il nostro ruolo. Quello di parlare, non quello di tacere.
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